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Domenica, 28 Aprile 2024
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TEGNE L’ORTU - L’orticoltura 1996 L’approvvigionamento orticolo è oggi ampiamente coperto dai Mercati Generali delle grandi città. L’autotrasporto delle derrate trasloca in poche ore le primizie, ovunque queste vengano richieste dagli acquirenti.Già con l’evento della ferrovia litoranea da Genova a Nizza, l’acquisto all’ingrosso degli ortaggi trovava un fiorente mercato in quel d’Albenga, a vantaggio di tutto il Ponente ligure.Ancora nei primi decenni di quest’ultimo dopoguerra, si aspettava l’arrivo del treno, prima d’acquistare l’insalatina fresca proveniente d’Albenga.Piccoli orti, dediti al consumo famigliare, sono sopravvissuti all’espandersi della floricoltura intensiva, oltre a quelli di qualche irriducibile agricoltore, che porta il suo raccolto in vendita diretta su un mercato, che ogni mattina presenta sempre più i caratteri di una bolgia dissennata.Per contro, fino alla metà del secolo XIX, le nostre vallate sono state disseminate di vastissimi orti, nei quali si coltivavano le derrate che riuscivano a sopportare le richieste locali, in maniera pressoché totale.Nel medioevo, l’orto faceva parte della casa dei ricchi ma anche di quella dei poveri. È lo stesso Carlo Magno che ne riconosce l’importanza già a fine dell'VIII secolo. Nel Capitulare de villis si incontra anche un elenco di piante dell’orto e vi si legge: “volumus quod in horto omnes herbas habeant”.Più di settanta sono le piante elencatevi, utilizzate sia per uso alimentare che aromatico o medicinale. Porri, cipolle, aglio e cavolo, erano quelle sempre presenti, ma c’erano anche: le rape, il finocchio, la lattuga, la bietola, le carote.Il luogo però dove l’orto ha assunto un ruolo fondamentale è stato il Monastero. Nei codici miniati dell’epoca, grande rilievo era dato per esempio agli spinaci. E addirittura a causa di una regola conventuale, si narra questa frase di Salimbene da Parma, ritrovata nel famoso testo di alimentazione medioevale del Montanari: “assai son disgustato dal mangiar quotidianamente lo cavolo”.I monaci di Lerino, come quelli di Novalesa, presenti rispettivamente il Val Roia e in Val Nervia, hanno tramandato alla popolazione contadina i rudimenti dell’orticoltura tradizionale; inoltre, dal Cinquecento in poi, sono stati i mediatori nell’inserimento delle piante che arrivavano dal Nuovo Mondo, le quali trovarono irriducibili barriere di irrazionalità e di propaganda da parte del potere.Gli orti ottocenteschi, presenti attorno ad ogni piccolo borgo, così come nei dintorni delle città; provvedevano al fabbisogno di tutte le comunità, attraverso il consumo famigliare del contadino, ma assai meglio attraverso la vendita giornaliera dei prodotti in eccedenza, allo scopo di incentivare la magra economia della famiglia contadina.Il ricordo legato a quei prodotti, li vorrebbe belli e voluminosi quanto quelli odierni, invece, in realtà, non arriverebbero a raggiungere tanto splendore; però, in quanto a gusto ed a qualità organolettiche, erano senza dubbio più quotati, coltivati com’erano in rispetto della naturalità.La concimazione era affidata al letame, ricavato dalla lettiera della stalla, oppure dal liquido dei pozzi neri; sostanze organiche di riciclaggio, oggi dimenticate.Gli antiparassitari si trovavano in natura, tra la miriade di insetti buoni, oggi scomparsi, o quanto meno resi inoperosi dagli stessi composti chimici che li dovrebbero sostituire.

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