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Venerdì, 29 Marzo 2024
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 U  CARBUNIN   -   Produttore o negoziante di legna e carbone    2015        XXXI

 

Nell’Ottocento, il venditore di legna e carbone era denominato u carbunin, pur negoziando anche la consueta legna da ardere, che diveniva sempre meno adatta alle correnti necessità domestiche; viceversa l’operaio specializzato a cuocere la legna per trasformarla in carbone, si chiamava piuttosto u carbunà e operava direttamente nel bosco.

In quel secolo, questi mestieri erano ancora considerati di primaria utilità poiché senza il carbone non era ormai possibile nessun lavoro domestico; come stirare o scaldare acqua per pulizia e bucato; oltre a riscaldare e a cuocere i cibi più semplicemente che con la legna, anche se erano molto diffuse le stufe a fornelli, chiamate poi “cucine economiche”, dotate di opportuni sportelli metallici. Il carbone era talmente importante che, nel periodo bellico, è stato materia da acquistare con la “tessera”, proprio come il pane.

Negli Anni Cinquanta del Novecento, con la massiccia diffusione del gas di città, la legna e il carbone hanno gradualmente perso mercato, fino a scomparire dalla vendita, che nella nostra città è coincisa con la chiusura delle vetuste ampie botteghe gestite dalle famiglie Arrigo e Moriano, insci’u Valun e int’Ê Asse.

Per millenni la legna è stata fonte di energia, il più antico combustibile naturale, ma fin dall’antichità la carbonizzazione, eliminando col fuoco l’acqua dal legno, portava ad ottenere maggior potere calorifico. Anche nei boschi del nostro entroterra, in appositi spiazzi, venivano allestite le “carbonaie” dove i carbonai, col lavoro di alcune decine di giorni, ottenevano un carico adatto a raggiungere la bottega in città.

I materiali utilizzati per allestire la carbonaia vengono raccolti nel bosco: rami ritorti, foglie, muschio, fango, terra e lose sono dunque materiali naturali. I tronchetti non possono avere un diametro superiore agli otto centimetri e vengono tagliati alla lunghezza di mezzo metro. I tronchi con diametro maggiore vanno spaccati in lunghezza.

Per allestire una carbonaia, nel bel mezzo d’una radura boschiva si erige una stipa centrale di pali, legati con rami ritorti, a formare un camino, appoggiandovi poi tronchetti in verticale tutt’attorno fino a raggiungere i sette metri di diametro; strutturandola in forma conica, alta fino a tre metri. Poi il cumulo deve essere ricoperto con frasche e fogliame, il tutto soffocato con un manto di terriccio e muschio dallo spessore d’una decina di centimetri, cinto da ampie “corone” di tralci ritorti. Posta della brace nel camino centrale, questo deve essere ricoperto con una “lösa” di pietra, ben sigillata, affinché il fuoco si diffonda a tutta la pira, evitando però di produrre la fiamma luminosa, con la limitazione della quantità d’aria guidata verso vari sfiatatoi, per regolarne il tiraggio. Questi, quando smettono di emettere fumo azzurro devono essere sigillati con fango, mentre si apre un altro foro nei pressi, guidando sapientemente la vampa.

Una volta che si è alimentata la pira, introducendo rametti spezzati dall’alto del camino; sigillata la “losa”, la fiamma non luminosa trasforma i tronchetti in carbone cominciando dall’alto e calando alla base. Il controllo delle operazioni deve essere costante e assiduo, per cui, in passato almeno due carbonai si davano il cambio a vegliare sul cumulo ardente, persino la notte, stazionando quindi in una capanna attrezzata nelle vicinanze, anche se la stagione non fosse stata benevola.

Fin dal medioevo, la Repubblica di Genova traeva dai territori montani della Liguria il legname per allestire le sue flotte, ma anche il carbone per cucinare e riscaldare le case, così come quello per la produzioni delle armi nelle fucine genovesi. In questo campo Genova aveva una posizione prevalente in Italia, tanto che quando, a fine Ottocento, la città Roma cominciò ad espandersi, il commercio del carbone era prerogativa dei liguri, che all’uopo emigravano nella capitale.

Dalle carbonaie del bosco, prima dell’avvento degli autocarri, il carbone arrivava in città portato sui “barroci”, grandi carri a traino equino, che venivano caricati con le “bale”, sacchi di juta contenenti mezzo quintale ciascuna, poste in posizione incrociata: cioè tre piani per lungo sormontati da uno strato per largo, in modo che evitassero di “sbragarsi”, benché fossero legate con robuste corde.

Giunti al deposito, i facchini con testa e spalle ricoperte da un sacco ripiegato a cappuccio, si caricavano d’una balla alla volta, inclinata sulla spalla e la portavano fino al luogo di svuotamento sul pavimento, mentre una nuvola di polvere scura si mescolava col loro sudore, annerendoli. Unico, biancore restavano denti ed occhi, mentre la polvere entrava copiosa nel naso.

Dopo aver accuratamente raccolta l’abbondante polvere tutt’intorno e rinforzato il grande mucchio con appositi paletti, il carbonaio lo innaffiava con molti secchi d’acqua per attenuare la polvere, o più semplicemente per aumentarne il peso.

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