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Venerdì, 29 Marzo 2024
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A canavàira    Coltivazione della canapa   -   2010

 

 

 

Dal XIII secolo, fino ai primi anni del Novecento la coltivazione della canapa, con il conseguente trattamento della fibra e del fusto legnoso, sono stati una importante risorsa del territorio Intemelio. Molte delle fasce, situate a ridosso dei corsi d’acqua convergenti versi il Nervia ed il Roia, nel vantaggio della loro ricchezza idrica, erano piantate a canapa, chiamandosi per questo “e canavaire”.

 

Al momento della raccolta, dopo il taglio delle piante, serviva abbondante acqua per la loro macerazione; ma una volta ricavata la fibra, questa veniva filata e tessuta, anche in loco; considerando come rappresentasse il tipo di tessuto più accessibile, proprio per le classi più povere.

 

A metà del Novecento, l’uso incomposto che la classe dominante cominciò a fare dei semi e della resina della pianta, condussero alla soppressione di un’economia che, ancor oggi troverebbe impiego negli ombrosi ed umidi territori attorno ai nostri incavati torrenti; terreni poco inclini ad altre coltivazioni; che da allora sono rimasti pressoché inattivi. Fin dall’antichità, la droga contenuta nei semi di canapa e nella resina, era considerata un potente analgesico e un medicinale, in tanti stati morbosi. Questa droga fu proibita durante l’Inquisizione e nei secoli successivi; fino al XX secolo, quando vennero varate leggi tendenti ad eliminarne completamente l’uso.

 

Oggi, per sfruttare l’affare “proibito”, in quelle che sono state le canavaire medievali, la malavita impianta coltivazioni di “canapa indiana”, che è parente della “canapa sativa”, ma produce molta più droga. Per contro, la parte sana della Società economica, quella vicina all’agricoltura e alla tessitura; sta suggerendo la ripresa dello sfruttamento di quei terreni. Ovviamente, piantandovi la specie sativa, anche considerando che le qualità odierne della pianta, la rendono molto più facile da coltivare, con pochi pesticidi e fertilizzanti. L’intero fusto è completamente utilizzabile, con procedimenti che adesso non sono più così complessi e faticosi, come lo sono stati sino alla metà del XX secolo.

 

La fibra della canapa è stata, dal V secolo a.C. e sino all’invenzione dei battelli a vapore, il materiale con cui era tessuta la maggior parte delle vele. Nei secoli XI e XII, la sua coltivazione è stata collegata alle attività marinare del Libero Comune; il quale la utilizzava in gran quantità, per far corde e vele. Fino all’Ottocento, per quasi un millennio, l’Italia è stata uno dei maggiori produttori ed esportatori di tessuti fatti con tale fibra e i sui migliori “clienti” sono stati i paesi nordici e britannici, di tutto il mondo, e non solo per le vele delle navi.

 

I tessuti di “lino italiano” di prima qualità erano fatti sia di fibre di canapa, sia di lino e in alcuni casi il tessuto era ricavato mescolando i due diversi tipi di fibre tra loro. Spesso il tessuto che veniva esportato dall’Italia, denominato lino, era la miglior canapa prodotta.

 

Sin dall’antichità, la parte fibrosa del fusto, “a télia”, è stata quella maggiormente usata per tessuti; mentre la parte legnosa, “e canavùire”, insieme agli scarti della fibra sono stati importanti per l’alto tenore di cellulosa. Si può ottenere da questa: una carta sottile, resistente e già bianca, come quella che produceva la nostra “Papéira”.

 

La parte legnosa è un ottimo combustibile, facilmente riproducibile. Inoltre, con le tecniche moderne del processo di polimerizzazione della sua cellulosa, si possano ottenere materiali, che sostituiscono i prodotti plastici chimici, ma con totale biodegrabilità. L’intero fusto legnoso, pressato ed associato a collanti biologici, permette di costruire tavole per la falegnameria e l’edilizia; che hanno la proprietà d’essere molto flessibili, robuste e più leggere di quelle ottenibili dal legno degli alberi.

 

 

 

Storicamente, la canapa ha costituito il 90% del tessuto usato per le vele, per il cordame da navigazione e per le reti da pesca, fin dal V secolo a.C.. Ma anche le mappe navali, fino ai primi del Novecento, erano in carta di canapa, che durava 50-100 volte più a lungo di quella a base di papiro; mentre, le mappe fatte su pelle di pecora si deterioravano facilmente.

 

E ancora, l’80% dei tessuti usati dall’umanità per vestiti, tende, tappeti, tovaglie, bandiere e quant’altro erano costituititi da fibre di canapa e questo fino all’inizio dell’Ottocento, negli Stati Uniti, e fino all’inizio del XX secolo nel resto del mondo. Almeno metà dei prodotti tessili che, sino alla fine del 1800, venivano classificati come “lino”, provenivano in realtà dalla pianta sativa, come i migliori lini irlandesi ed i raffinati vestiti italiani. La parte legnosa era utilizzata per fare fuoco, anche nelle cucine. L’uso di fibre intrecciate, il “cànavu”, serviva ad ottenere corde, ma anche recipienti utili al lavoro, data la sua impermeabilità.

 

Nella produzione artigianale, era il mercante ad investire capitali per l’acquisto della canapa da lavorare, ma coordinava anche le varie fasi produttive, svolte al domicilio dei lavoranti; inoltre, si interessava di inviare i prodotti verso i vari mercati. La lavorazione della fibra per tessuti in Italia era affidata da sempre alle donne, che svolgevano il lavoro di filatrici e tessitrici di canapa presso le loro abitazioni. Erano per lo più vedove con figli o zitelle: il lavoro svolto in casa permetteva loro di accudire ai lavori domestici e alla famiglia.

 

La produzione si concentrava nei mesi da settembre a marzo, in assenza delle fatiche nei campi. Affinata la macerazione nei “nàixi”, appositi grossi bacili, i fusti fradici si avviavano verso “l’amassaù”, il frantoio dove venivano: “gramüřài”, passati alla gramola per separarli dalla fibra, che quindi era: “grapià”, “incanà” dai “taratùi” e “degrossà”, ossia: sfilacciata, battuta con canne e pettinata, prima di essere adatta alla filatura; con la quale si otteneva “l’àssa”, il filo pronto alla tessitura.

 

Ampio era il mercato per la canapa italiana. Richiestissima era anche la canapa grezza e semilavorata, che lasciava l’Italia dai porti di Venezia, Livorno, Genova. Per lo più, il lavorato andava verso il Nord Europa, e inoltre vi erano i porti del Tirreno, che commercializzavano la canapa con paesi d’oltre oceano e anche con la parte costiera europea. Soprattutto dal porto di Genova, partiva la tela utilizzata per i vestiti degli operai in America (jeans) e la raffinata carta di canapa prodotta dalle cartiere liguri. La parola inglese jean è stata sollecitata dalla glossa locale “arbaxìn”, che in Ligure richiama l’orbacino, la tela di cotone misto con canapa, intessuti con due distinte trame addossate. La coltivazione della canapa calò molto, quando la juta la sostituì negli usi meno nobili, e in seguito con l’avvento delle fibre sintetiche.

 

La produzione della canapa sta ritornando in auge. Nel campo dell’abbigliamento: gli stilisti tornano a realizzare modelli per abiti in morbida canapa. L’edilizia chiede le flessibili e robuste tavole fatte di “canapolo”, ma anche la sua combustibilità sta ottenendo consensi, alla luce della vantaggiosa riproducibilità delle culture. Oggi, vengono coltivate piante dissomiglianti da quelle antiche, che non hanno più bisogno della macerazione; piante che si seccano ancora avvinte al terreno e sono pronte all’uso al momento della completa maturazione.

Venga certamente soppressa la pianta conosciuta come marijuana, è foriera di troppi danni versoi la nostra gioventù; ma ci si impegni a far tornare produttivi quei terreni a fondovalle dei nostri torrenti che un tempo si chiamavano “canavàire” e portavano un reddito accettabile, anche attraverso l’indotto.

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