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Giovedì, 28 Marzo 2024
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A FURNÀIXA da CAUÇINA

Fornace calcaria

 

 

In campo edilizio e architettonico, fin dall’antichità, si sono utilizzate: pietre, argilla e legno. Tutti materiali disponibili sul posto. Le pietre squadrate per l’edificazione e quelle comuni per la fabbricazione della calce, l’argilla per creare le tegole, il legno per reggere le coperture e la legna sfusa per la produzione dell’intenso calore, atto a trasformare i materiali.

La semplice tecnologia unita alla creatività, oltre alle conoscenze acquisite nei secoli, hanno consentito agli artigiani di produrre e di soddisfare le esigenze di intere comunità. Tra le primitive attività imprenditoriali edilizie, nascevano i forni per produrre la calce, necessaria per ottenere una malta arenosa che avrebbe tenuto unite tra loro le pietre, nelle costruzioni.

Ancora negli Anni Cinquanta, lungo il tratto iniziale della strada provinciale di Val Nervia, sul lato di Ponente, da dove prende avvio la mulattiera per i Gantin, era vivo il toponimo “a Furnaixa”, che stava ad indicare il luogo dove aveva agito per decenni la fornace calcaria, ancora attiva tra le due guerre. Era costituita da un forno rustico, a forma di cono per la cottura del calcare.

Il forno era formato da una imponente struttura di sassi squadrati resistenti al calore. Era costruito presso il bordo della strada allo scopo di facilitare il trasporto del necessario legname da ardere e delle rocce calcaree, rinvenute lungo il greto della rivaira e sui crinali affacciati sulla Nervia.

La fornace poggiava su un ampio basamento quadrato, costituente la camera di combustione, sormontato da una struttura circolare in pietra addossata al pendio, che sovente veniva rielevata a seconda della produzione. Nell’ampio cono, sopra il piano di fuoco, venivano ordinati i sassi calcarei dai più grossi ai più piccoli, dal basso verso l'alto, fino alla sommità, dove venivano ricoperti di ghiaia e malta.

Per produrre la calce si lasciava scaldare il forno, continuando ad alimentarlo con dieci chili di legna ogni tre minuti, per un periodo lungo dai sei agli otto giorni, fino a raggiungere una temperatura molto vicina ai mille gradi, che consentiva di ottenere almeno 250 kilogrammi di calcare cotto.

Il carbonato di calcio contenuto nelle rocce calcarée perdeva l’anidride carbonica trasformandosi in ossido di calcio, la “calce viva”. Per ottenerla si trasferivano i sassi in una fossa e si bagnavano con abbondante acqua, recuperata dalla falda, ottenendo l’idrossido di calcio, la “calce spenta”, ridotta in polvere finissima. Questa era ulteriormente idratata fino al raggiungimento di una massa pastosa chiamata grascetu. Tale grassello, di colore bianco vivace, mescolato con sabbia fine costituiva la malta per l’edilizia.

 

SEGUE RETRO

La calce è il legante più "antico" dopo il gesso, di fatto l'unico usato fino all'industrializzazione dell’edilizia. Era conosciuta sin dalla Preistoria, seimila anni or sono, nell’antico Egitto e in Mesopotamia, prodotta in forni specifici. Nella nostra fornace, per ottenere alte temperature si usava in prevalenza legna di Macchia Mediterranea, oltre a quella di recupero.

Pur non avendo le conoscenze scientifiche per capire la trasformazione fisico-chimica che subiva la pietra calcarea sottoposta a cottura, i nostri cauçinéi tramandarono per generazioni una vasta esperienza, dando vita a un mestiere nel quale nulla era lasciato al caso.

La calce prodotta riusciva a soddisfare le esigenze edilizie di tutto territorio ventimigliese. Mescolata alla sabbia, veniva usata per la costruzione delle case; ma anche come intonaco e per l’imbiancatura dei locali; date le sue caratteristiche disinfettanti.

Per questo era usata anche in agricoltura, come anticrittogamico, sui tronchi degli alberi da frutto, ma persino amalgamata al terreno da coltivare, per affinarne il Ph. Per consuetudine gli agricoltori conservavano la calce in una fossa, scavata nel terreno in prossimità della casa colonica.

Nel XII secolo, i terreni lungo i corsi delle nostre rivaire vennero intensivamente coltivati a canapa tessile, per ricavarne la fibra che veniva persino tessuta in loco. Dalla estrazione della fibra macerata derivava il canapulo, il fusto ligneo della pianta; un legno assai ricco di silice, che finemente spezzettato e mescolato con la calce mineralizzava ottimamente, pur mantenendo una inaspettata leggerezza, rivelandosi quindi adatto a realizzare coperture ed intonaci.

Un attento osservatore del territorio quale è Gianni Gennaro mi ha informato sulla presenza di una non grande calcinaia rettangolare, da lui vista all’età di dieci anni, in tempo di guerra, quando già era pressoché in disuso dietro la chiesa di Sant’Agostino. Si poteva raggiungere entrando da Via Hambury, per il varco che era attivo dove oggi è sita la gioielleria. In passato, avrebbe potuto servire al fabbisogno della erigenda chiesa, continuando poi a fornire la calce per le numerose case erette nei dintorni e bisognose di cure nel dopoguerra.

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