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Venerdì, 29 Marzo 2024
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AFAITAÜRA D’Ê PÉLE - La conceria In considerazione della gran quantità di greggi che praticavano stagionalmente il ghidàgiu, la locale transumanza lungo le draire, tracciate nei secoli attraverso le nostre montagne; la concia delle pelli, lungo il basso corso della Roia, sarebbe da disporre nel corso di tutto il medioevo, anche tenendo conto della ricchezza di acque e della possibilità di reperire in loco le essenze vegetali e minerali adatte.U ghi, il vischio, che serviva per la concia grassa, veniva raccolto sui monti di Pigna, Briga e Tenda; u rüscu e a mùrtura, coriaria e mirto, erano triturate in molti villaggi del contado, come di tannino erano ricchi i boschi di Tenda, Pigna, Rezzo e Triora. Non mancavano le rocce per la produzione della calce, e le fornaci, dette cauçinéire, o furnaixi da cauçina, erano operanti ancora nell’ultimo dopoguerra.Oltre all’afaitatüra domestica, che allevatori e cacciatori attuavano assai rozzamente; fino al Settecento la concia artigianale era praticata con sistemi rudimentali, in fosse a cielo aperto, e ciòte o causinàire; in seguito si adoperarono vasche in muratura, in genere interrate; fino a giungere all’uso di tini meccanizzati, nel Novecento.Il pelà raccoglieva le pelli e le preparava alla concia con la salatura, l’afaitavù: le conciava per consegnarle al peleté che le rifiniva per iniziarle al commercio. La pelle grezza arrivava fresca o più spesso salata, o secca. Veniva immersa nelle vasche per la lavatura e la depilazione; seguivano poi: a scarnaüra e a spurgaüra con acqua corrente o impasto di calce. Poi le pelli venivano immesse in vasche o in botti, e tine, in genere di legno, per la concia in successivi periodi; dove le pelli, per mutarsi in cöiru, erano a rimescolate giornalmente a contatto con soluzioni sempre più cariche di tannino, per periodi che potevano durare dai sei agli otto mesi.Alla concia seguiva a refeniüra, con la pelle inchiodata, assai tesa, su appositi telai dove si asciugava ammorbidendosi per l’impiego costante di sostanze grasse sulla superficie; infine, veniva rifilata con apposite cesoie ed era pronta per la vendita.Ogni tipo di pelle subiva una propria forma di concia che poteva cambiare anche ad ottenere un diverso risultato, attraverso l’uso di appropriata sostanza conciante, o di differente colorante. Le pelli più ampie erano divise in parti e conciate separatamente, a seconda del risultato da ottenere.Qualche notizia sulla concia locale si ha a partire dal 1337, quando Bertone Ventimiglia, signore di Aurigo e Caravonica, prendeva abitazione a Porto Maurizio, ingaggiando operai ventimigliesi per la sua conceria di pelli. I suoi figli, Francesco e Pantaleone, oltre ad essere negozianti, erano ottimi capitani di mare e conducevano traffici in Barberia, Tunisi, Algeri e Mar Nero. Nei primi anni dell’Ottocento, col rarefarsi del commercio di legnami proveniente dai boschi di Tenda, si liberavano gli opifici delle segherie presenti nel sito delle "Serre", servito da acque abbondanti, col canale delle Gianchette.In quel sito, nel 1840, Filippo Lorenzi apriva una conceria per la lavorazione delle pelli di capra e vitello, impiegando pelli importate dal Plata, dall’Australia e da alcuni paesi europei. Alla sua morte, nel 1880 la conceria verrà diretta dal figlio Andrea, che indirizzando l’azienda verso la specializzazione, nel 1892, otteneva la medaglia d’oro all’esposizione di Palermo ed altri importanti riconoscimenti internazionali, nel 1897.In quegli anni, la città contava poco meno di tremila abitanti, che arrivavano a circa settemila con le frazioni, l’olivicoltura era in crisi, esisteva solo un porto di seconda categoria, quarta classe; le industrie erano tutte familiari, salvo una conceria, una cava ed una segheria a vapore.Quella conceria, la quale aveva aperto proprie filiali a Tangeri e Marsiglia, luoghi nei quali si approvvigionava delle pelli grezze, impiegava 114 operai ed aveva in funzione cento tini con motori meccanici. La produzione annua si aggirava sulle 150.000 pelli, smerciate su tutto il territorio nazionale e preferite per la perfezione della lavorazione. Particolare cura veniva dedicata alla lavorazione del vitello bianco, attraverso la modernizzazione degli impianti, avvenuta non senza difficoltà, dell’aprile del 1900, con la Società impiantata tra Andrea Lorenzi e Giovanni Davigo.Tale Conceria, sita sul terreno ceduto dai marchesi Orengo, tra via Tenda e la ferrovia, operò sino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, poi venne parcellizzata in numerose officine di varie attività. Negli anni Ottanta subiva un grave incendio, che portava il terreno risultante a fornire la sede a tre grossi condomini.Il 30 marzo del 1902, maestranze scontente della nuova conduzione, fondavano la Società Anonima Cooperativa Pellettieri, che aveva come marchio di fabbrica "WAROT". Questa era fra le più importanti della Liguria Occidentale per la lavorazione di vitelli e vacchette bianche a tomaia.Nell’aprile del 1905, il farmacista Azaretti faceva costruire una sua conceria, proprio nei pressi delle due già esistenti. Operavano in quel tempo due calzaturifici di una certa importanza: La ditta Taverna per scarpe pregiate e Civallero, che fabbricava pantofole, entrambe cessarono di produrre negli anni Settanta.Col proliferare delle concerie, anche l’indotto trovava garanzie di lavoro. La murta o murtura, raccolta dalla macchia mediterranea, spontanea sulle colline che circondano la città ed i sobborghi di Ponente, veniva triturata da appositi mulini che sfruttavano sia la corrente della Roia, sia quella dei torrenti o dei rii.Le foglie di coriaria, ovvero di rüscu françese, usato per colorare la concia, veniva importato dalla vicina Provenza, ma era anch’esso triturato sul posto, in minima parte. L’incompatibilità delle foglie di coriaria all’umidità, per favorirne la macinazione, era ovviata con l’uso di müřin a sanghe, ossia macine a trazione animale, con l’impiego di asini e muli.Il fatto che in zona la produzione conciaria si sia dissolta nei primi anni del Novecento ci ha risparmiato un impegnativo intervento di risanamento ambientale in tempi più recenti. Il Canale Lorenzi che oggi è stato completamente interrato nel suo percorso iniziale, fino alle Gianchette, è ancora attivo nella parte cittadina ricoperta, trascinando liquami abusivi che andrebbero a sfociare nei pressi della Passerella; ma non sono paragonabili neppure lontanamente all’inquinamento ambientale che il canale ha trascinato in mare, a cielo aperto, durante quasi tutto l’Ottocento.Il disinquinamento si è realizzato per proprio conto, lungo gli ultimi ottant’anni del Novecento, lasciandoci un mare mediamente accettabile, almeno verso questa specifica attività di conceria, la quale produttivamente, però, un poco ci farebbe comodo.

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