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Venerdì, 19 Aprile 2024
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CIARRÙN E CIAPUNÉ - Carradore e maniscalco 2005 Tra il primo ed il secondo Conflitto Mondiale, i mezzi di trasporto motorizzati, privati, ebbero un discreto sviluppo, soprattutto nei grandi centri urbani italiani. Nel territorio Intemelio le automobili private si contavano sulle dita delle mani, mentre erano ancora assai numerosi i carri di ogni specie e la forza motrice più importante era fornita principalmente dagli equini. Quella forma di energia era conosciuta come del tipo “a sànghe”. Non molti i cavalli, qualche asino, erano invece diffusissimi i muli, d’ambo i sessi, adattati anche a tirare i carri, ma in special modo usati come bestie da soma.Ancora alla fine degli anni Cinquanta, erano più numerosi i mezzi di trasporto animali di quelli motorizzati, ma da quel periodo il dileguamento degli equini è stato precipitoso ed inesorabile. Un così frettoloso calo portò alla quasi scomparsa di due profili artigianali fra i più antichi e diffusi: il “ciarrùn” ed il “ciapuné”, ossia, il carradore ed il maniscalco.Compito del carradore era la costruzione e la riparazione dei mezzi di trasporto trainati da equini, nei trasporti d’oggi questi compiti sono sostenuti da tre artigiani: il carrozziere, il tappezziere ed il meccanico. Il carradore lavorava per lo più all’aperto perché i travicelli per fare e sprànghe, le stanghe dei carri erano lunghi quattro metri ed oltre.Il carro tipico era lungo dai quindici ai diciotto palmi, a seconda dell’utilità, e largo un metro o poco più. Era diviso in due parti. La prima era il cassone vero e proprio, lungo un paio di metri, con due sponde per contenere il carico; e bandàde, le sponde erano trattenute da puntelli sporgenti chiamate e füseleire che sostenevano e barachìne, i pannelli delle sponde, trattenute fra loro da e strenzéire, una lista legnosa anteriore e l’altra posteriore.L’altra parte consisteva nelle stanghe tra le quali si attaccava il cavallo o il mulo. Alla punta di ognuna delle stanghe era praticato un foro, detto lösa, che serviva a trattenere i finimenti per l’attacco. Montate le stanghe al disotto della base, detta u léitu, si rafforzava il tutto con le sottostanghe su cui si montava l’ascià, l’asse che doveva reggere le ruote. U bařançìn era un asse attrezzato di anelli, incatenato al timone del carro, cui erano attaccati i finimenti. A candéřa era un paletto elevabile per contenere il carico. U tùrnu era un verricello metallico per fissare i carichi, attrezzato con u scòcu, piccolo gancio incernierato per arrestarlo; e a bìa, un’asta metallica per azionarlo. U casciòtu era il cassetto degli attrezzi, sostenuto da due guida sotto il piano anteriore.C’era anche il freno detto a martinìca. Un travicello lungo quanto era largo il carretto fino alle ruote conteneva alle estremità, in corrispondenza delle ruote, due piastre ferrose, sfregatoio del freno, dette i tàchi. Il tutto era azionato da un pezzo di legno, la cui punta, lungo una delle sponde raggiungeva l’incavo di una rotella girevole, sopra la quale passava la fune che, azionata di dietro, spostava il travicello ferrato in avanti, tanto che le piastre si avvicinavano e sfioravano, o stringevano, le ruote facendo sentire lo stridio dell’attrito che avveniva tra il metallo del cerchione e le piastre.La parte più impegnativa di tutta l’opera era la costruzione delle ruote, soprattutto del mozzo, detto u pignùn. Questo era il gruppo centrale da dove partivano dodici raggi divisi per sei, ossia due raggi per anta. Il mozzo era un grosso tronco d’albero, che veniva lavorato e tornito, alle cui estremità erano fissati dei cerchi di ferro per evitare la rottura. Al centro era praticato un foro che conteneva a sgùscia, un cono di metallo a forma e funzione di guaina che serviva ad accogliere l’asse. Quando l’asse entrava nel mozzo, sporgeva per circa dieci centimetri. All’estremità vi era un consistente foro nel quale veniva infilata a ciàve, che impedire l’uscita della ruota.Le sei ante che costituivano la circonferenza esterna della ruota, erano trattenute da u çerciùn, che aveva un minimo sei fori, i quali venivano prolungati fin dentro l’anta allo scopo di fissare legno e ferro. U lamùn, la lamina di ferro che costituirà il cerchione, veniva stesa per terra e ricoperta di brace per farla dilatare, arroventandola. Con particolari pinze il cerchione rovente veniva fatto aderire al legno, in maniera che ne bruciasse solo un piccolo spessore, per farlo raffreddare al momento giusto, in maniera che, restringendosi, diventasse un tutt’uno con la parte legnosa.Il carradore era coadiuvato dal sellaio, che allestiva gli interni imbottiti delle carrozze, ma principalmente, trattando: legno, cuoio, crine e paglia, produceva le bardature per l’animale: a séla, u bàstu, u bastìn; quel tecnico veniva chiamato u selà o u basté, distinguendo il tipo di produzione. Suoi attrezzi del mestiere sono: robusti aghi, filo speciale e vari attrezzi da taglio.Il sellaio, produceva anche i furniménti che permettevano la conduzione dell’animale. Ognuno dei finimenti, che nell’insieme erano detti “bardaüra”, aveva il proprio nome: a brìla: la briglia; u brilùn: paraocchi e briglia; e ghide: le redini lunghe, da veicolo; i tirànti, agganciati al bařançìn; a testéira: la cavezza; a çéngia: sottopancia della sella; u mòrsciu: il morso, e spòrle, le cinghie posteriori attrezzate con u sutacùa: il sottocoda.Il meccanico del passato era invece il veterinario, o chi per lui, in un periodo nel quale le cure sanitarie per l’uomo erano affidate al cerusico o alla guaritrice; per gli animali erano sufficienti le cognizioni del maniscalco, che per la sua arte nel ferrare gli equini con i ciapùi, chiamavamo u ciapuné.Il termine germanico “marahskalk”, col significato di: servo del cavallo, definiva colui che rassettava gli equini con a strügia e a rasccéta, striglia e brusca; ossia chi praticava a mascàřsa, in altre parole la custodia del cavallo. In seguito mascarsun è diventato un appellativo spregiativo ed odioso.L’arte di ferrare i cavalli, tanto umile in apparenza, non manca di avere una parte considerevole nel trasporto con l’uso di grandi animali, in passato, riflettendo a quanto dovesse essere incomodo l’intraprendere lunghi viaggi per la possibile probabilità di non poterli condurre a termine nel tempo prefisso, in causa del dolore ai piedi provocato dal consumo degli zoccoli.

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