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Giovedì, 28 Marzo 2024
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RIFERIMENTI STORICI

Si hanno notizie di Carnevali ventimigliesi, popolarmente molto sentiti, all’inizio del secolo, con elitari veglioni nel Teatro Civico, in città alta, ora Civica Biblioteca, e poi nel nuovo Politeama Sociale della città bassa, ora Teatro Comunale.

 

Nel suo memoriale lo storico Girolamo Rossi ci informa che: la sera del 9 febbraio 1893, alle ore 21, ha fatto il suo ingresso in città la mascherata rappresentante Carnevale, col nome di “Marchese III”. Nella serata del giorno 14, si era bruciato il Carnevale, al Cavo. 1

Per il conte Camillo Benso di Cavour, giovane ufficiale del Genio Sabaudo, inviato nella nostra città per ristrutturare il forte San Paolo, il Carnevale ventimigliese del 1829 era:“… oltremodo brillante” e ne informa in una lettera la nonna Filippina, chiamata affettuosamente Mairina, cui era particolarmente legato. Nella stessa lettera dice ancora: ”… In compenso si balla tutte le domeniche, tutto il giorno e la notte, sebbene fino ad oggi non si siano viste che delle danze popolari, cui ha partecipato unicamente il popolino. Tuttavia ci son stati promessi dei balli un po’ più eleganti ai quali interverranno tutte le bellezze ventimigliesi. E siccome il bel sesso del luogo è molto grazioso, la cosa si presenta senz’altro sotto un aspetto affascinante”.2

 
IL BALLO COME SFOGO POPOLARE
 

Del Carnevale a Ventimiglia e della smania per il ballo dei suoi cittadini, siano stati essi popolari o di classe elevata, abbiamo notizie ancora più antiche. Già nel XVI secolo, il vescovo Grimaldi sarebbe intervenuto moderatamente per limitare il divertimento del ballo al solo periodo del carnevale; ma nel 1586, un’altro vescovo ventimigliese, monsignor Galbiati, condannava aspramente il ballo denominato “la nizzarda”.3

Il segretario del cardinale Aldobrandini, nel 1601 scriveva di una festa di Carnevale a Ventimiglia cui ha assistito e dove ha visto ballare “la nizzarda”, ballo che giudica veramente grazioso.4

Oltre al ballo, si svolgeva un corteo in maschera, qualche volta accompagnato da carri allegorici, in ogni caso composto sempre da popolazione festante e danzante. Certamente era vivo il rituale di camuffarsi per non farsi riconoscere e poter così dar sfogo a temporanee rivalse, almeno verbali, verso i potenti.

Persino sul nostro territorio, le feste popolari che si celebravano nell’antica Roma, in onore di Iside agli inizi del mese di marzo, hanno trovato esecuzione nel senso suggerito dalla reale etimologia della parola “carnevale”.5

Molto della coreografia di questi rituali dipendeva dalla protezione totemica desiderata dalla comunità medesima. I lupercali del popolo romano esaltavano il lupo fecondatore, mentre in altre località, ad esempio, era il suino coi suoi derivati a tenere banco.

Residuo di tali riti si potrebbe riscontrare nel nostro attuale carnevale, nel quale, pur essendosi esaurita la funzione carnevalesca, restano parvenze di antiche usanze pressoché scomparse, quali, ad esempio il lancio di coriandoli e stelle filanti o il fatto che la maschera principale sfiori con un pesce affumicato i partecipanti (come vedremo nel paragrafo che segue).

FORMALITÀ DISSACRATORIE
 

Precise informazioni dateci da Emilio Azaretti e confermate dall’esperienza diretta di numerosi altri informatori, ci hanno fornito le caratteristiche peculiari di un personaggio immancabile nei carnevali ventimigliesi d’anteguerra. Il tipo mascherato descrittoci era detto Chélu ch’u fa’ pità. Indossava sempre un enorme camicione col quale mimetizzava le reali sembianze del folle giullare per ovvie ragioni di temute rivalse, possibili, visto l’incarico di dissacratore satirico che assumeva nei confronti della politica cittadina, anche se solamente nei giorni di Carnevale. 6

La sua caratteristica estetica più rilevante consisteva nel fatto di essere armato d’un lungo bastone dal quale pendeva un’aringa affumicata.7 Si presentava con una frase di rito:(“Sun Segù, u pescavù, òn a cana inescà, vögliu fate pità”), portando l’aringa penzoloni davanti al naso del malcapitato preso di mira e, sempre alterando la voce in falsetto, gli proponeva: ”Ti pìti, ti pìti”, istigandolo ad abboccare all’amo.

Ad una qualunque reazione del soggetto scelto, iniziava, sempre in uno strettissimo falsetto, la sequela delle invettive popolari, più o meno pubbliche o più o meno note, che lo riguardavano, non risparmiando proprio nulla. Ebbene, se il malcapitato abbozzava, tutto finiva in allegria tra una bevuta generosamente offerta alla compagnia; se, viceversa, si alterava, peggio per lui, perché la città tutta sarebbe ben presto stata informata delle presunte malefatte o scandali.

Lasciata una vittima, la “maschera” andava subito alla caccia di quella successiva, la quale, se personaggio pubblico, avrebbe fatto meglio a farsi trovare tra la folla festante in modo bonario e spontaneo. Con questa presenza si sarebbe risparmiato ben più feroci canzonature, che non sarebbe stato semplice sminuire ridendoci sopra come se nulla fosse.

Compito rilevante, gravoso e delicato aveva dunque la maschera Chélu ch’u fa’ pità, ovvero colui che invita, che costringe a beccare. Era, di solito, il giovanotto in possesso delle migliori caratteristiche di attore, mimo ed improvvisatore di tutta la compagnia di buontemponi che frequentavano i caffè culturali cittadini in auge negli anni Venti.

Le notizie ed i testi delle punzecchiature erano creati coralmente, nelle insonni nottate precedenti il Carnevale, ma gli appunti strategici sugli argomenti piccanti venivano raccolti e conservati nel corso dell’intero anno, quando capitavano o quando se ne veniva informati, meglio se segretamente: tutto nella prospettiva della più o meno accettata originariamente, trasgressione carnevalesca.

 

IL RUMPIPIGNÀTA

 

Il Carnevale vero e proprio inizia il giovedì ed i giorni fino al lunedì successivo, “a setemana grascia”, vengono considerati giorni de carlevà, mentre il martedì grasso è il vero e proprio carlevà, il giorno dopo si entra in quaresima, anche se l’atmosfera resta carnevalesca fino alla domenica successiva.

Un’altra delle caratteristiche del Carnevale locale è la sua durata, derivante dall’influenza subita dal Rito Ambrosiano, a causa della lunga appartenenza dalla diocesi intemelia a quella metropolitana di Milano conclusasi il 9 aprile del 1806.8

Come accade su tutto il territorio lombardo ed in qualche altro luogo della Riviera di Ponente, anche Ventimiglia, nella prima domenica di Quaresima, indice la festa popolare della “pentolaccia”.

 

 

Fino agli Anni Cinquanta, la celebrazione di questa festa, detta idiomaticamente del rumpipignàta, era molto sentita, tanto che persino la pubblica autorità indiceva un raduno popolare, attorno a mezza dozzina di pentolacce, pronte da sorteggiare.

Il contenuto delle pignatte era quasi sempre di natura alimentare, a volte un oggetto di un certo pregio, ma naturalmente non mancava quello liquido, cioè l’acqua ..., sovente, per irrorare il malcapitato bendato che si voleva cimentare.

Negli anni successivi, la manifestazione venne sempre più dedicata ai bambini, con le meno ruvide pentolacce di cartone ricolme di caramelle, ma anche di coriandoli e segatura che, nell’immancabile esito di burla, sostituiva - trattandosi di bimbi - la più insidiosa acqua, o qualcosa di peggio.

 

LA FILASTROCCA DI CARNEVALE

 

Com’è nella migliore tradizione, anche il Carnevale ci ha tramandato una sua filastrocca, documento ricordato ancora da Emilio Azaretti, con un testo tutto improntato alla coincidenza tra il divertimento, l’enologia e la gastronomia:

 

Carlevà u l’è mortu

imbriàgu cùme in pòrcu;

u l’à fàitu testaméntu

ìnscia pòrta d’u Cuvéntu,

lasciàndu ai sòu figliöi

tagliarìn e raviöi.

 

Come tiritera entra di diritto tra i più classici rituali popolari del Carnevale, che sarà bruciato come capro espiatorio facendo appena in tempo a mettere a buon fine il lascito testamentario, il quale ultimo, oltre al buon vino di cui Carnevale si dimostrava satollo, conterrà due tra le più conosciute specialità gastronomiche locali.

Nel menù tradizionale del Carnevale spicca un dolcetto fritto, assai semplice, confezionato con strisce di pasta intrecciate o variamente involtate, poi spolverate di zucchero. Il loro nome dialettale è e buxìe, (le bugie).

 

U SCÜROTU

 

Il mercoledì delle Ceneri viene chiamato u Scürotu, dal verbo scürà, “ripulire sfregando”: quel giorno, infatti, era dedicato alla rituale pulizia delle batterie da cucina per liberarle del grasso dei pasti di Carnevale, rito che avveniva con l’uso di sabbia o terriccio, prima dell’avvento della pomice.

La sera del “martedì grasso”, era usanza di radunarsi attorno al tavolo per una cena importante, detta “u Rezegnùn”, preparata in precedenza, in cui la portata importante era “u Turtùn”, proveniente dalle vallate interne (due sfoglie stese sulla teglia, contenenti erbe selvatiche, carni macinate, assieme ad abbondante lardo, il tutto lungamente cotto in forno).

Durante la Quaresima si teneva particolare attenzione all’alimentazione, scartando, ad esempio, la carne di maiale ed i vegetali agliacei, privilegiando magari il pesce. Alcune ricette locali traggono addirittura origine dalle penitenze quaresimali, caratterizzate appunto dai numerosi digiuni.

 

 

 

Il baccalà con il cavolo bianco, così come il risotto con verdure, lo stoccafisso con le noci, le aringhe affumicate e il pesce azzurro in ogni accezione, tenevano compagnia a biscotti assai magri detti i careximài e preparati in occasione e in funzione della povera dieta della Quaresima, termine che indica appunto i quaranta giorni che precedono la Pasqua e che dovevano essere trascorsi all’insegna di penitenze di vario genere compresa quella alimentare. Nel nostro dialetto Quaresima si dice a Carésima o Caréxima.

Anche negli atti rogati dall’Amandolesio, a Ventimiglia, a metà del Duecento, si rileva che la Quaresima era anche detta “Carnisprivium” o “Carnelevarius”, in contrapposizione a “Carnalis”, “Carnarilis” o “Quadragesima”.

Nella prima domenica di Quaresima, sia in Provenza che in Borgogna, era comune l’uso di portare torce di paglia accese per frutteti e campi la prima domenica di quaresima, come pare sia stato comune in Francia e persino tra la nostra gente, in un rito talvolta accompagnato dall’uso di accendere falò.9

 

SAN GIUSEPPE

 

Per quanto mobile possa essere la Pasqua, all’interno del periodo quaresimale cade molto spesso la festa di San Giuseppe, capo della Sacra Famiglia. La data del 19 marzo, giorno della ricorrenza, la troviamo nei martirologi a partire dal X secolo, mentre come festa universale dovette attendere il 1621, quando Gregorio XV la estese a tutta la Chiesa. Soltanto nel 1847 Pio IX stabilì la festività di precetto. Nel 1956, Pio XII consacrò la giornata non più a San Giuseppe Padre putativo di Gesù, ma a San Giuseppe Artigiano e primo santo “lavoratore”, riducendo però la celebrazione a “memoria facoltativa”.

Tornando alla religiosità locale, con molta probabilità la chiesuola di San Nicolò, alla Marina, (attiva già nel Dodicesimo secolo) ha iniziato la sua dedicazione a San Giuseppe proprio negli anni attorno al 1621. La grande fiera di animali trovò inserimento in questa festività soltanto in età postnapoleonica.

Quanto alla gastronomia locale, San Giuseppe porta le frittelle, che sovente sono fresciöi di sola pastella, ma a volte contengono mele o frutta varie.

Ancora negli anni Sessanta, alla “Marina”, detta appunto “San Giuseppe”, nella terza settimana di marzo si tenevano alcune importanti serate da ballo in un padiglione appositamente predisposto e conservato fino agli anni Sessanta.

 

A DUMENEGA D’E ARIME

 

Nel periodo calendariale attorno all’Equinozio di primavera, cade la quarta domenica di Quaresima, ricorrenza mobile, che nella tradizione dialettale viene chiamata “a Duménega d’e àrime” (la domenica delle anime), a ricordo di una ritualità popolare che ancora nel Medioevo avrebbe, in quell’occasione, cercato di allontanare la “morte” dalla società contadina dell’antichità, come riporta James Frazer nella prima parte del suo Il Ramo d’oro, quando riferisce sulla “cacciata della morte”.10

La cristianità ha assorbito nella Metà quaresima una tradizione legata al rigenerarsi della natura, alle ritualità popolari che tendevano a scongiurare un inaridimento mortale del ciclo vegetativo, allontanandone i tabù contrari, visti come attacco corruttore degli spiriti agresti, in questo caso, trasformati in anime alla ricerca della salvezza.11

 

IL PESCE D’APRILE

 

Nei locali cantieri edili, un quella giornata non mancava mai l’invio del “bocia” in farmacia, con la seguente frase:“Teh ! Chi ti gh’ài in sodu, ti vai fina dau spezià e ti te fai da’ in’étu de pistamùrru. S’u nu’ n’avésse de pruntu, ti t’u fài pistà”. Il malcapitato garzone arrivava in farmacia dove il commesso, e qualche volta anche il dottore, pensava a risolvere la questione, ritirando il soldo e fornendo qualche deciso buffetto sul viso dello sventurato, dato che il prodotto già pronto, immancabilmente, era andato esaurito.

Sulla strada del ritorno il garzone rimuginava sulla sua dabbenaggine, prevedendo già i lazzi di tutto il cantiere al suo ritorno, ma inevitabilmente maturava le esperienze della vita.

Anche nel mondo del commercio e dei mercati, nell’artigianato di bottega e nelle campagne coltivate da salariati il pesce d’aprile è stato una costante inevitabile. Mi raccontava Lorenzo Viale, figlio e nipote di panettieri, come tra i fornai della Città Alta fosse in vigore il pesce che aveva per protagonista “a prìa scaudafùrnu”.

Quello dei fornai, cui dall’anno precedente era rimasta in deposito la pesantissima pietra in oggetto, contenuta in un apposito sacco, mandava il neo garzone dal concorrente che aveva necessità di scaldare il forno con quella. Il destinatario faceva conto di non esserne informato e dirottava il malcapitato garzone verso un terzo artigiano, con la scusante che il padrone si doveva essere confuso, sulla richiesta; e la cosa andava avanti fino all’esaurimento dei fornai operanti, tra le risate di tutti.

NOTE:

 

(1) Girolamo Rossi: Cronaca Ventimigliese 1850-1914, estratti e note di Emilio Azaretti. - Cumpagnia d’i Ventemigliusi 1989. p. 43.

(2) Girolamo Rossi: Storia della Città di Ventimiglia - Eredi Ghilini Oneglia 1886. p. 217. p.

(3) Domenico Astengo - Emanuela Duretto - Massimo Quaini: La Scopetta della Riviera viaggiatori, immagini, paesaggio - SAGEP Genova 1982. p. 185.

(4) Erino Viola e Serena Vatta Leone: L’esilio a Ventimiglia del luogotenente Cavour. - I MESI, anno 6, n. 4, dicembre 1978, p. 75. - Istituto Bancario San Paolo di Torino.

(5) Carnevale, ci riporta al “carrus navalis”, il battello su ruote, preceduto da gruppi burleschi di personaggi travestiti, sul quale era trasportato il simulacro di Iside, protettrice dei marinai, tra le danze ed i canti liturgici della popolazione romana, ancora verso la fine dell’età imperiale. Alfredo Cattabiani: Calendario, le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno. Rusconi Milano 1988. p. 151.

(6) Sfogliando Paolo Toschi; deriviamo le affinità del nostro personaggio con gli “issocadores” del folclore sardo di Mamojada, in Barbagia. Questi figuranti, in processione danzata, associati ai “mamutones, sorta di “umbrae silentes”, frustano le persone che assistono al corteo, e la frusta è un attrezzo dalla forma assai simile alla canna da pesca. Questo rito potrebbe rifarsi agli antichi Lupercali, nel Lazio, che si celebravano a Roma il 15 febbraio, ed ormai trasformate in un rito di fertilità, fin dai tempi degli antichi re. Due giovani, rivestiti delle pelli degli animali sacrificati, correvano intorno al Palatino, percuotendo con strisce di cuoio, tagliate dalla pelle del lupo, le donne ansiose di garantirsi la fecondità. Secondo Pierre Échinard, sulla spiaggia di Marsiglia, al culmine della “nuotata di Caramantran” alcuni gagliardi fendono l’oceanica folla, portando in spalla a mo’ di fardello un bastone, con appesa un’aringa salata, a significare il sopraggiungere della Quaresima e della sua magra dieta. Paolo Toschi - Le origini del Teatro italiano - Boringhieri, Torino 1979; pp 182/185.

(7) La derivazione di quell’armamentario gli giunge dai rituali isiaci, dove maschere addobbate da pescatore provvedevano alla cattura delle anime dal mare dei peccati. Il Donini, invece ci avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale, quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale. Ambrogio Donini - Lineamenti di storia delle religioni, (Roma 1959) ci si avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale.

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(8) Una conferma dei riferimenti liturgici al Rito Ambrosiano, presenti nella nostra Diocesi, la ricordavano i paramenti sacri dedicati al Santissimo Sacramento, presenti in Cattedrale, ancora al termine dell’ultimo conflitto mondiale e dispersi per incuria attorno agli anni Sessanta. Quando la Cattedrale fu restaurata, seguendo anche le variazioni della liturgia esteriore dettate dal Concilio, si perse l’uso di rivestire le colonne e certe pareti con i pesanti paramenti, legati ai colori del calendario liturgico. Oltre ai paramenti, anche il baldacchino per accompagnare le processioni dedicate al Santissimo Sacramento era di colore rosso, secondo il Rito Ambrosiano, mentre il Rito Romano prevedeva, da sempre, il colore bianco. Oltre alle cotte ed alle dalmatiche degli officianti, sempre in color rosso era l’ombrello dedicato al trasferimento del viatico verso la casa d’un morente.

(9) Queste torce di paglia sono dette comunemente “brandons” e la glossa francese è presente anche nel nostro dialetto col medesimo significato. Il termine dialettale “brandùn” ha il significato di “lumiera”, come può essere un tortoro di paglia avvolta su un nodoso bastone per fornire funzioni di fiaccola. Sempre in dialetto la fiaccola, ricavata da un tratto di ramo resinoso, viene detta “fàra” ed un insieme di “fàre” cioè un bel falò e detto “farassùn”. Invece, nell’Alta Valle Nervia, come a Triora il falò rituale viene detto “òsu”, derivante dal più antico “fařòsu”.

10) James G. Frazer: Il Ramo d’Oro, studio sulla magia e la religione - Boringhieri Milano 1973 - vol. I p. 468.

11) idem - vol. I par. XXVIII, 2 e 3.

 

 

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